Chi conosce da sempre la Libera Università di Alcatraz inizia già a parlare di “Nuova Alcatraz”. Con chi chiede delucidazioni, ci si spiega dicendo: “abbiamo riattivato la struttura come centro di accoglienza”.
Oggi, nelle mille telefonate, nei mille messaggi che si rincorrono nel gruppo del coordinamento, ci è stato chiaro che siamo diventati, in soli 11 giorni, “un centro di accoglienza per donne e bambini – per ora – dall’Ucraina”. Intanto siamo così, ma i progetti sono tanti. E, mentre scriviamo, il gruppo è alle prese con la prima lezione di italiano con Arianna e Fabrizio, volontari di Perugia.
Sono giornate intense. È passata solo una settimana dal loro arrivo, ma a noi sembra già tantissimo. Il gruppo dei volontari sta imparando a coordinarsi, stiamo imparando che ci sono mani, occhi, teste e piedi che lavorano insieme, fianco a fianco, magari non sempre con le stesse idee, ma sempre con lo stesso obbiettivo: far stare bene i nostri ospiti, anzi, le nostre ospiti.
Il nostro diario di bordo continua: oggi raccoglie le parole di Gabriella Canova e Maria Cristina Dalbosco, che hanno ascoltato racconti ed emozioni.
Inizia Gabriella che ha scritto le storie ascoltate negli ultimi due giorni.
Fino a un mese fa, la più grande preoccupazione di Albina era la scuola. Frequentava il liceo artistico. Il suo orgoglio: quelle unghie lunghe e affilate, laccate con cura. Le piace lavorare con l’argilla, mi ha mostrato con orgoglio una maschera che ha costruito: un diavolo nero e rosso con grandi corna. Un po’ inquietante, senz’altro, fermo restando che queste contraddizioni tra la dolcezza dei tratti e i pensieri scuri sono tipici degli adolescenti di tutto il mondo.
Sorrideva mai Alina, fino a quel giorno in cui mi ha mostrato nel suo smartphone quella maschera. Ha sorriso davanti alle mie esclamazioni di stupore, ha riso quando le ho detto che mi faceva un po’ paura. Ieri ha preso da parte Paola Conti e le ha chiesto quanto costasse una piastra per i capelli. Il giorno prima Paola era arrivata con due piastre e aveva chiesto: “a chi servono?” Alina non aveva risposto, poi in privato… A questo punto Paola ha portato una sua piastra da viaggio e gliel’ha data. Poi, minuti dopo, Alina è arrivata con i capelli piastrati, le unghie impeccabili e sorrideva un po’ di più, ma sempre poco.
Tocca tener conto dell’orgoglio di ognuno. Fino al giorno prima erano famiglie magari benestanti e il giorno dopo… Fare attenzione a come si porgono i doni è fondamentale. La prima sera, quando i volontari hanno chiesto se le persone volevano vestiti, scarpe ecc., nessuno ha preso niente, tranne i pigiami. Davanti agli altri tutti si vergognavano, poi un po’ alla volta, quando è stato chiaro che il magazzino era a loro disposizione e non dovevano chiedere, ecco che si sono presi quello che serviva loro.
Quando sono arrivati questi ragazzi erano seri, imbronciati, sembravo arrabbiati, e come condannarli? Poi qualche giorno di sole, un pallone, una piastra per i capelli, iniziare a studiare anche se da lontano, la prospettiva di qualche gita… Non è la soluzione ma aiuta. Non parlano volentieri di quello che hanno lasciato, ti raccontano i fatti, nudi e crudi, senza emozioni. Sono in contatto con le famiglie e i mariti che hanno lasciato in Ucraina.
Liza è un militare, lavora negli uffici. Ha conosciuto il marito 7-8 anni fa alla scuola dell’Accademia Militare. Si sono sposati e hanno avuto una bambina, Zlata. Abitavano in un quartiere a Kiev. Quando hanno iniziato i bombardamenti (proprio di casa loro, per fortuna stavano al primo piano, hanno bombardato dall’ottavo piano in su) lei è partita con la madre e la figlia. Lì è rimasto il marito di Liza, che attualmente è in un posto segreto insieme ad altre 20 persone tra militari e civili. Stanno bene, per ora hanno da mangiare e la corrente elettrica. Quando sono scappate si sono perse il cane. Quando lunedì Irish e Paola Moro hanno portato il loro labrador, la piccola Zlata ci si è sdraiata a terra, vicino, perché così faceva con il suo. Il padre di Elisa, il marito di Iryna, è scappato e si è rifugiato insieme ai vicini di casa in una scuola bombardata, senza corrente elettrica e senza acqua. Si sono sentiti fino a lunedì mattina e lui raccontava che comincia a non esserci più niente. Riescono a ricaricare il cellulare grazie ai militari… ma da allora non lo sentono più.
Nataliia è insegnate di inglese, ha viaggiato molto, ha insegnato inglese ai bambini cinesi per cinque anni. È laureata in economia internazionale. La mamma è psicologa, il papà è un costruttore e lei è qui con la nonna mentre i genitori sono rimasti in Ucraina. Il padre, prima di vederla partire le ha detto: “Vai, hai una carriera davanti, vai, considera che la tua nuova vita potrebbe essere fuori dall’Ucraina. Ti auguro di ritornare, ma prendi in considerazione l’idea che potresti non tornare, noi qui o otteniamo la libertà o moriamo”. Natalia raccontava: “i nostri uomini, se sarà necessario, moriranno per l’Ucraina”. Parla perfettamente inglese e anche altre lingue, Cinzia Monteverdi (Presidente della Fondazione Il Fatto Quotidiano) le ha già parlato sabato scorso, ci sono buone possibilità che riesca a inserirsi velocemente nel mondo del lavoro.
L’aver creato i gruppi per la cucina sta creando coesione tra le famiglie. Si stringono amicizie, ci si scambia ricette. Ormai i volontari si limitano a essere di supporto per indicare dove sono gli utensili, come si usa la lavastoviglie e ad assaggiare i piatti della cucina ucraina. Ieri il borsh con panna acida e prezzemolo era fantastico. E quello che inizialmente è stato preso come un “dovere” per ripagare dell’ospitalità (tanto che Irina non ha risposto al marito che telefonava perché era di turno in cucina) ora sta diventando una cosa loro: hanno capito che possono proporre i loro piatti, cambiare gli orari (ad esempio abbiamo anticipato la cena alle 19).
A unire tutti c’è Myhailo (che si legge Mischi), il più piccolo, due anni, lo vedi correre in giro, si farà le scale duecento volte al giorno… Diventerà un atleta.
Poi, alle 18.00 arriva un messaggio: è Maria Cristina che si aggiunge al racconto.
Sono quasi le 11 e già ci troviamo in cucina con Liza e Nataliia per organizzare il pranzo delle 13: come d’uso, in tavola verrà portata una zuppa, e oggi quello che noi chiamiamo “secondo” sarà un piatto di penne con sugo all’amatriciana! Alla zuppa pensano completamente le ragazze ucraine di turno, il sugo all’amatriciana, invece, andrà preparato insieme a Luciana, perché vogliono imparare un po’ di cucina italiana. Ci stiamo capendo un po’ in inglese e un po’ a gesti, quando dall’altra sala corre una delle giovani donne con in mano un cellulare che suona, chiamando “Liza, Liza”… ed è chiaro che dall’altra parte dello smartphone c’è il marito.
Liza e la sua piccola Zlata di 3 anni ora sono appartate in un angolo, si sente la vocina della bimba parlare col papà, il tono tranquillizzante della mamma che accompagna la chiacchierata. E poi il tono di Liza cambia un po’, diventa più serio. Slata si muove per la sala ma non ha una meta, si riavvicina alla mamma che intanto, chissà, starà raccontando come stanno, cosa fanno; e poi solo qualche monosillabo, sta ascoltando, avrà chiesto informazioni. C’è solo umanità e amore in quella lunga conversazione che si svolge in una lingua incomprensibile; eppure, il colore delle voci suona così universale…
È calato il silenzio. Attendo qualche minuto e mi avvicino con il barattolone dei biscotti appena sfornati da Luciana. E Liza mi racconta che suo marito sta bene, è felice che sia ancora vivo, lui, che sta con un gruppo di militari un po’ fuori da Kiev. Racconta che ai soldati è stato portato tanto cibo ma non hanno possibilità di cucinarlo, e allora ci pensano le famiglie che abitano nei dintorni, che cuociono le patate, la carne, le zuppe, e gliele fanno avere. Mi mostra una foto dove sono insieme, solo loro due, sono bellissimi, le faccio i complimenti. Lei ha gli occhi lucidi, mi dice che oggi lo ha visto stanco, dimagrito, “con due grandi strisce grigie sotto gli occhi”. Ma rasserenato perché la sua famiglia sta bene, al sicuro, in un ambiente pieno di cura e affetto.