Zlata ha tre anni e mezzo, la prima a sorridermi, la prima che impara a dire “ciiiao”, la prima di cui imparo il nome. Con lei la mamma Yelizaveta (Liza) e la nonna Iryna. Sono arrivate da Bucha l’undici marzo 2022. Hanno lasciato in Ucraina il nonno, il papà Alexander, soldato, e tutto il resto. Zlata ha un cane, Stefi, una signorina di due anni e 32 chili, un alaskan malamute. Stefi è scappata mentre partivano. Sono dovute andare via senza di lei. Questo preoccupa tutte e tre, ma solo Zlata lo rende evidente.
Con il passare dei giorni e della quarantena causa covid, ogni tanto passo a salutare o per cambiare una lampadina fulminata, scambio un ciiiao, abbozzo una frase in un inglese scordato e traballante. Scopro che Alexander ha ritrovato Stefi, mi fanno vedere una fotografia, vedo una gamba vestita in mimetica con appoggiato un muso peloso con occhi che ho visto indossare solo a cani beati dalla presenza di un loro umano di riferimento. Nella fotografia il pavimento è cemento di un rifugio antiaereo.
Zlata adora dipingere con gli acquarelli, è stata la prima richiesta di necessità di Liza. Quando passo da loro Zlata mi mostra i suoi lavori, tra questi mi fa vedere un foglio dove ha dipinto un soldato, il soldato è suo papà e ha in mano un mazzo di fiori per la sua mamma. Liza racconta che suo marito è riuscito a trovare qualcuno che trasporterà il cane a casa di amici, vicino al confine ucraino tra Ungheria e Romania. La loro famiglia spende risparmi preziosi per acquistare una gabbia con cui effettuare il trasporto e cibo per cani con cui ricompensare il trasportatore. Il viaggio riesce, Stefi è al sicuro.
La mamma e la nonna di Zlata sono persone di grande dignità, affrontano con la schiena dritta le difficoltà che stanno passando. Ma le difficoltà pesano e qualche crepa si apre, escono le preoccupazioni e le sofferenze indicibili. Tra queste Liza confida che i suoi amici non potranno tenere a lungo un ospite impegnativo come Stefi. Lo slancio di Mattea è quello che avremmo avuto tutti (spero, in un eccesso di fiducia nel genere umano): facciamo un appello, troviamo qualcuno che vada a prendere Stefi al confine.
Il tempo è poco, qualche risposta seguita allo slancio si spegne, che facciamo? Eh, che facciamo, vado io. Penso a un secondo, il viaggio è lungo e in toccata e fuga, è necessario qualcuno a cui affidare il sonno tra un turno di guida e l’altro. Mio fratello mi dice di si nel giorno in cui scade il suo sessantesimo anno.
Cerco un pulmino adatto al viaggio, quando dico della destinazione agli amici Mattia e Marco Martinelli che ci supportano, la loro risposta è: ti diamo il “carro armato”. Così lo chiamano il loro mezzo sicuro e affidabile.
È sabato quando diciamo a Liza che tra meno di una settimana partiamo. Organizziamo l’indispensabile: cuscino e coperta, un cambio, thermos di caffè, panini, il passaporto e una cartina stradale, oggetto in disuso ma dall’alto valore scaramantico. Giovedì 7 marzo alle 15 partiamo da Alcatraz io, mio fratello e Liza. Zlata vorrebbe venire con noi, per Liza il sacrificio del distacco è grande vista la situazione che sta vivendo, mi immagino al suo posto. No, non riesco neanche a immaginarlo.
La destinazione è Sighetu Marmației, in Romania. Lo stesso varco di frontiera da cui Liza e le altre sono uscite. Liza preferisce da lì, dice che i frontalieri sono stati gentili, che almeno conosce il posto. Nel viaggio l’unica frontiera dove esibire documenti, e dove il passaporto giallo e blu riceve dei timbri entrata e uscita, è quella tra Ungheria e Romania, vecchio stile, non siamo più abituati, ci vuole pazienza e tempo.
Dopo 17 ore, un fuso orario e più di 1500 chilometri, arriviamo. Sono le nove del mattino e piove. Il posto di frontiera è incorniciato da una serie di presidi gestiti da chi si occupa della prima assistenza a chi cerca riparo. Gli amici sono in ritardo, sono stati fermati perché hanno la targa dell’auto di un altra provincia, sono fortunatamente riusciti ad avere un lasciapassare. Liza mi spiega che la coppia di amici non può passare con l’auto la frontiera, passerà solo la donna a piedi con il cane.
Il confine passa lungo un corso d’acqua, c’è un ponte da attraversare per arrivare alla Romania dall’Ucraina in questo punto. Liza intravede la sua amica e Stefi che camminano. L’avvicinamento è composto, tante le divise, ma uscita dalle barriere Stefi mette comunque le sue zampe anteriori sulla pancia della sua umana Liza e le lecca la faccia.
I frontalieri, i volontari e i soccorritori chiedono gentilmente se possono fare delle foto. Liza acconsente, cerca di tenere le labbra serrate, ma sorride. Ci mettiamo in disparte, le ragazze parlano fitto, tante le cose da dirsi, poco il tempo per farlo, mentre io e Stefi facciamo amicizia; lei dopo la rituale annusata si concede alle carezze.
Cambiano di mano guinzaglio e passaporto veterinario, uno zainetto si presta ad ospitare cibo di chiara origine italiana e al momento del saluto, come ultimo gesto, una bustina con richiesta di consegna. La bustina è trasparente, riconosco il soldato con in mano il mazzo di fiori.
Di nuovo sulla strada, a ritroso, tutto bene fino alla frontiera vecchio stile. Stavolta ci sono dei militari con il mitra bene in vista, fanno domande, impartiscono ordini secchi: ci chiedono i passaporti, verificano la presenza di persone di nazionalità ucraina, e poi smistano su una fila specifica, ci spiegano che sono nuove direttive, adottate il giorno prima o il giorno stesso, non capiamo bene. La conseguenza è che in una fila vanno gli ucraini, nelle restanti quattro corsie le altre nazionalità.
Va bene, abbiamo solo sette auto davanti a noi, quanto mai ci vorrà? Dopo tre ore e un quarto passate senza muoversi, mio fratello scende e si dirige verso i militari, parlotta in inglese, gesticola, un graduato lo porta a parlare con un frontaliere, poi viene chiamato il superiore. La tesi è che la maggioranza presente nel pulmino è italiana, visto che la maggioranza vince sempre ci pare giusto andare in una delle altre corsie.
La tesi è un sofisma vincente, cambiamo corsia. Davanti ai gabbiotti di controllo doganale sulla presenza di Stefi, munita di regolare passaporto veterinario ucraino, faccio finta di niente. Sarebbe un pareggio due a due. Il documento è ai miei piedi, nel caso dirò che mi è caduto. Lei regge il gioco, è sdraiata e silenziosa, i doganieri timbrano senza alzarsi dalla sedia. Mentre passiamo oltre, penso con vergogna “europea” alle persone di quella unica fila, che ormai è lunghissima. Tiriamo il fiato, Liza mi ringrazia perché ha capito il trucco, era preoccupata che qualcosa andasse storto.
Il viaggio è tranquillo, notturno, Liza dorme sul sedile tenendo una mano su Stefi, quando ci fermiamo la fa scendere a passeggiare. Mentre Liza dorme Stefi infila il muso tra i sedili anteriori, ci tiene compagnia.
Arriviamo ad Alcatraz che sono quasi le sei, raccogliamo le cose e accompagno Lisa e Stefi fuori dalla loro stanza, le lascio all’intimità del ricongiungimento con Zlata. Penso che di Stefi non ho ancora sentito la voce. Mio fratello prosegue per Roma, io stropiccio i miei bambini e poi vado a dormire.
Dopo qualche ora passo a salutare. Liza è pensierosa, mi parla di come Stefi è stata in quelle ore, di come corre nervosa nel sonno, del modo anomalo in cui gira la testa e tende le orecchie. Mi dice che pensa che il motivo sia di come ha vissuto quei giorni dispersa e sola in quella città devastata e violata di cui tutti sappiamo, del trauma da stress che sicuramente ha riportato nel vedere, sentire e annusare la distruzione della guerra.
Chiedo di vedere Zlata, per capire se è contenta, se gli abbiamo alleggerito il peso. Escono a salutarmi sul prato che guarda al tramonto davanti alla loro camera. Le ragazze, giocano, Zlata abbraccia la sua amica affondando il viso nella pelliccia del collo, Stefi è composta e seduta, ha gli occhi semichiusi e guarda lontano.
Stefano Bertea